mercoledì 28 febbraio 2007

RIVOLUZIONE FRANCESE, RIV. BORGHESE?

La rivoluzione francese, rivoluzione borghese?


L’interpretazione di Marx e la propaganda dei rivoluzionari stessi ha creato una vera e propria ortodossia nell’interpretazione storica della rivoluzione francese. Una ortodossia che è giunta fino agli anni Cinquanta del secolo scorso.

La storiografia marxista ha quindi trattato la rivoluzione francese come il passaggio (violento) dal sistema feudale a quello capitalistico-borghese.

Jules Michelet, Jean Jaures, Albert Mathiez, Georges Lefebvre, Albert Soboul sostengono che la borghesia nel 1789 fosse giunta al culmine della “lotta di classe” con l’aristocrazia: una casta chiusa, arroccata nella conservazione del potere e nel mantenimento del sistema feudale. Il risultato della rivoluzione è uno stato più avanzato sotto il profilo economico, sociale e politico.

Nel 1954[1] uno studioso inglese, Alfred Cobban, rilegge la storia degli anni rivoluzionari negando la teoria marxista di “big ban” capitalistico. Attraverso uno studio molto attento del materiale dell’epoca confuta tutti i punti sostenuti dalla storiografica “classica”:
1 – Non c’era il feudalesimo. Nel 1789 solo un terzo delle terre apparteneva alla classe aristocratica e i tanto sbandierati privilegi non erano altro che rimasugli insignificanti per lo sviluppo economico.
2 – Non è la borghesia a fare la rivoluzione.
La miccia fu accesa dai nobili che contrastarono le riforme finanziarie proposte dal governo. Strano che LA RIVOLUZIONE BORGHESE sia innescata da un conflitto tra re e nobili!
Nell’assemblea nazionale non c’erano rappresentanti della fantomatica borghesia capitalistica (industriali, ricchi artigiani, imprenditori) bensì esponenti della categoria degli “Officiers” ossia i funzionari pubblici che si erano comprati le cariche dalla corona. Questo corpo, istruito ma non molto importante, voleva contare di più e avere maggiori compensi economici. Ma non sono certo loro a promuovere lo sviluppo capitalistico del paese.
3 – La rivoluzione danneggia l’economia. I dati economici confermano l’effetto negativo dei fatti del 1789-1799 sullo sviluppo economico. Ha funzionato da freno e non da volano per il passaggio da una società protoindustriale a una società industriale moderna.

Le pubblicazioni di Cobban fanno scuola in Inghilterra. Dopo di lui altri storici rilanciano la teoria anti-marxista. Taylor sostiene che i rivoluzionari agiscono con l’intento di imitare lo stile di vita della nobiltà. Doyle dimostra come il processo rivoluzionario non si sia sviluppato secondo lo schema della lotta di classe: appartenenti agli ordini privilegiati erano tutt’altro che chiusi alle rimostranze dei borghesi. Infine R Forster sostenne che l’aristocrazia non viene assolutamente distrutta dalla rivoluzione: nel 1815 infatti le famiglie nobili sono praticamente le stesse del 1789.

La risposta dei marxisti
Le posizioni degli anglossassoni sono talmente convincenti che molti storici marxisti rivedono la propria lettura dei fatti alla luce delle nuove interpretazioni. Gli danno ragione sulla minimalia dei privilegi (ma sottolineano l’importanza simbolica di questi); accolgono l’analisi sugli officiers (ma sostengono l’importanza “in prospettiva” di questa classe sociale); assumono come giusta la posizione di una campagna francese spesso contraria alle istanze rivoluzionarie, quindi alla borghesia e al capitalismo. In generale però ribadiscono l’enorme importanza storica di “esempio” per tutto il mondo. In particolare François Furet, il maggiore storico della rivoluzione francese, riprese in mano tutta la questione arrivando, in un certo senso, ad un punto di sintesi.
Secondo Furet la rivoluzione francese va considerata attraverso tre processi distinti:


1) LIVELLO ECONOMICO
Inizia la trasformazione capitalistica, ma non c’è un cambiamento positivo, non c’è crescita economica. Anzi, la rivoluzione è negativa per l’economia francese. Ha ragione Cobban.

2) LIVELLO STORICO SOCIALE
Anche qui gli anglosassoni hanno ragione. Nel 1815 l’ordine sociale è pressoché identico. I borghesi sono dei conservatori simili agli aristocratici; vogliono mantenere i privilegi ottenuti e gli industriali innovatori non ci sono. Il risultato finale è un compromesso tra grande borghesia e aristocrazia.

3) LIVELLO POLITICO
E’ il campo delle grandi trasformazioni. Ricordiamoci di Sckocpol: state braking, state making.
Trionfano le idee illuministiche della libertà dell’individuo e della libertà del commercio. Vale la legge “uguale per tutti” e c’è una carta dei diritti del cittadino al di sopra dell’autorità del capo di stato. E’ finito il potere “divino” e il “modello” feudale. Al suo posto la NAZIONE raccoglie la sovranità popolare e la realizza tramite un governo eletto liberamente.


Quindi c’è “rivoluzione borghese” o non c’è?

Tra il 1770 e il 1870 c’è stato un doppio processo di trasformazione: economico e istituzionale.

ECONOMICO
Nel 1770 è un sistema che inizia il processo di modernizzazione. La società non era più organizzata secondo i parametri tipici dell’età feudale, ma restava qualche elemento fortemente simbolico (privilegi, status speciale) utile per ribadire la gerarchia di ceto.
Nel 1870 la Francia è un paese moderno, organizzato secondo il sistema capitalistico.

STATO
Nel 1770 c’è ancora una monarchia assoluta con un sistema di signorie locali più vicino al sistema feudale che al moderno stato. L’autorità centrale non ha un reale controllo del territorio.
Nel 1870 la Francia è una repubblica presidenziale con parlamento e libere elezioni (a suffragio ridotto). La legge tutela tutti i cittadini in modo ugualitario, esiste una carta dei diritti inalienabili, il fisco preleva in maniera rigorosa dall’intero corpo produttivo.

Lo storico Thompson ha parlato di “grande arco della trasformazione”. Un processo che interessa tutti i paesi con tempi e modi differenti. E che interessa i vari campi in tempi e modi differenti. Come si vede dal grafico il progresso della politica non coincide con lo sviluppo dell’economia.
L’economia soffre le turbolenze della rivoluzione; sono le innovazioni del primo ottocento (treno, telaio meccanico) a far compiere il grande balzo. Viceversa la politica conosce un clamoroso avanzamento negli anni rivoluzionari, per poi tornare indietro (ma non al 1789) dopo il 1815 nel periodo della “restaurazione”.

La rivoluzione francese non può essere considerata rivoluzione borghese; è l’intero processo di trasformazione a rivoluzionare stato, economia e società.
È il processo, non il momento!


COSA CAMBIA IN CONCRETO LA RIVOLUZIONE?
Vediamo qual è il contributo della rivoluzione al processo di trasformazione.

Sotto il profilo economico hanno certamente segnato un passo in avanti le leggi di liberalizzazione degli scambi commerciali: furono abolite le dogane interne, furono aboliti i balzelli territoriali, come le decime e altri residui delle epoche precedenti. Molto controversa fu la legge
LE CHAPELIER che abolì il sistema delle corporazioni. In pratica colpiva i lavoratori dipendenti togliendogli le garanzie e le protezioni tradizionali. Il vantaggio era per gli imprenditori che avevano meno spese e minori obblighi.
Nel complesso però la guerra civile che in pratica attanagliò il paese per oltre tre anni danneggiò il sistema economico, colpendo il commercio coloniale e l’attività portuale di città come Marsiglia e Bordeaux. La lenta penetrazione del sistema di fabbrica nelle campagne fu interrotto a causa della rivoluzione.

Dal punto di vista istituzionale la rivoluzione porta a grandi novità:
ü Laicizzazione dello stato
ü Pubblica amministrazione razionale ed efficiente
ü Istruzione per tutti
ü Uguaglianza giuridica
ü Diritti civili
ü Esercito di leva

Conclusione:
Si può ritenere la rivoluzione francese come un momento nel processo di “rivoluzione borghese” che ha contribuito alla sua realizzazione in modo esiguo, anzi, negativo per l’aspetto economico e in modo fondamentale, nonché altamente positivo a livello politico, giuridico e istituzionale
[1] Cobban tiene un discorso alla University College di Londra nel 1954 dal titolo “il mito della rivoluzione francese” a cui farà seguire nel 1964 un testo monografico che approfondisce le varie questioni. Si tratta del libro in edizione italiana “La rivoluzione francese”, Bonacci Editore, 1994.

RIVOLUZIONE FRANCESE 2

La crisi 1770-1789

Alla fine del Settecento la Francia poteva contare circa 28 milioni di abitanti, uno degli eserciti più forti del mondo, una burocrazia e un sistema amministrativo centralizzato tra i più avanzati d’Europa. Tra i suoi cittadini c’erano le menti più in vista del continente, le sue élite culturali (i philosophes) facevano scuola negli altri paesi; la sua aristocrazia, e ancor di più la corte di Versailles, erano un modello inarrivabile per i sovrani e i principi di tutti gli stati. Il francese era, infine, la lingua ufficiale della diplomazia internazionale. L’assolutismo sembrava ancora un sistema valido, vista anche la rovinosa sconfitta inglese nella guerra contro i coloni americani.
Le prime trasformazioni industriali (o protoindustriali) iniziavano a cambiare il volto della manifattura anche nelle tante fabbriche sparse nella campagna francese.
Quando Luigi XVI salì al trono (1774) una fase di declino e ristagno prese il posto alla lenta crescita registrata negli anni precedenti.
La crisi finanziaria precipitò nel volgere di pochi anni. Gli oneri delle guerre d’oltreoceano avevano svuotato le casse statali; i tentativi di riforma naufragarono tutti contro il veto incrociato dei vari gruppi di potere. Da una parte nobiltà e clero bloccarono qualunque tentativo di riforma fiscale che includesse le alte rendite; dall’altra la liberalizzazione del commercio trovò strenua resistenza nel potere di Parlamenti: organi locali che rappresentavano una vera e propria “falla” nel presunto assolutismo dei sovrani di Francia. Nel giro di pochi anni il dicastero delle finanze vive un via vai continuo di ministri “tecnici” che provano ricette diverse per uscire dalla crisi: prima Tourgot, poi Necker, quindi Joly de Fleury, per arrivare al 1787 a Charles Colonne.
I contrasti con aristocrazia (e clero) e Parlamenti indusse il re, nel luglio 1788, a convocare gli Stati Generali come “extrema ratio” per uscire dalla crisi. Nel decreto di convocazione venivano sollecitati “tutte le persone istruite del regno … a inviare suggerimenti o memorie relative alla prossima convocazione degli stati generali”.
La crisi, non risolvibile con compromessi parziali, richiedeva una soluzione definitiva. Anche il popolo – per la prima volta – era chiamato a dire la sua.

La situazione inedita fu la visibilità del dibattito pubblico. La politica usciva dal chiuso delle stanze di nobili o alto-borghesi per scendere in piazza, nelle strade, nelle affollate assemblee pubbliche. Una certa alfabetizzazione e la diffusione della stampa favorì questo processo di mobilitazione di massa intorno alle opinioni politiche.
Tra marzo e aprile 1789 in tutte le comunità e in tutti i quartieri cittadini i capifamiglia si riunirono per eleggere i delegati di zona che, a sua volta, avrebbero scelto i deputati per l’assemblea degli stati generali. Insieme alla nomina dei delegati furono compilati anche i cahiers de doléances
(quaderni delle lamentele), ovvero rivendicazioni e richieste. I circa 60000 chaiers ci dicono di una diffusa insofferenza sia per i vecchi privilegi sia per alcune nuove misure di tipo “capitalistico”e, naturalmente, per le evidenti ingiustizie che ancora dominavano la società francese. Accanto ai chaiers ci fu un’esplosione di pubblicazioni, opuscoli, pamphlets[1]. Sul banco degli imputati il principio di privilegio detenuto, senza niente in cambio, da nobiltà e clero, rispettivamente l’1,5% e lo 0.5% dell’intera popolazione.

Quali privilegi?
Non pagavano la taglia, cioè l’imposta sul reddito;
Il clero riscuoteva la decima su tutti i prodotti agricoli;
I signori dei villaggi riscuotevano censi in denaro, parte dei raccolti, pedaggi, tasse sulla compravendita di terre, dazi sul passaggio di merci;
La legge era magnanima con nobiltà ed esponenti dell’alto clero.

Scoppia la rivoluzione: il 1789

L’Assemblea generale
Il 5 maggio si aprì a Versailles l’assemblea degli stati generali. La composizione numerica sanciva queste proporzioni:
Terzo stato 578 deputati
Nobiltà 270
Clero 291
Ma in realtà molti esponenti del clero erano parroci di provincia che aderivano al programma del terzo stato; alcuni nobili erano anch’essi simpatizzanti con le idee anti-assolutistiche.
Il primo punto all’ordine del giorno, ossia il meccanismo di voto, paralizzò i lavori. Il terzo stato voleva il voto individuale, clero e aristocrazia il voto per ordine. A metà giugno una folta pattuglia di deputati, in maggioranza aderenti al terzo stato, si proclamò Assemblea Nazionale in quanto eletti dal basso e investiti del potere dalla volontà generale. L’assolutismo era finito.
La nuova assemblea, che si riuniva nella sala della Pallacorda, si diede come primo obiettivo la stesura di una costituzione. Il re invitò gli altri rappresentanti degli ordini ad aggregarsi al terzo stato per riscrivere insieme le nuove regole dello stato.

1° errore di Luigi XVI – Contemporaneamente alle aperture verso i riformatori, il sovrano complottava strane manovre: licenziò Necker (ministro delle finanze) e assembrò truppe a Parigi e a Versailles. Questi movimenti diffusero inquietudine e spinsero il popolo, alle prese con una difficile congiuntura economica, ad una serie di rimostranze in città. Il 14 luglio una folla di artigiani e bottegai andarono davanti alla Bastiglia per chiedere armi. La guarnigione aprì il fuoco lasciando sul terreno un centinaio di manifestanti. Ma la fortezza fu espugnata e il governatore ucciso. La violenza era entrata nella politica.

In seguito all’episodio il re tornò sui suoi passi; alcuni leader cittadini istituirono il potere locale tramite un Comitato e una Milizia (affidata a La Fayette), Il rosso e il blu – i colori di Parigi – si unirono al bianco per formare la coccarda simbolo di unità nazionale. Con quella coccarda il re si affacciò dall’hotel de Ville, il 17 luglio, assieme al sindaco della città per simboleggiare una nuova unità.

La campagna
Molto si è discusso sul ruolo della campagna nelle calde giornate rivoluzionarie. È vero che nell’estate ’89 molte sollevazioni contadine spinsero l’assemblea nazionale ad una serie di provvedimenti legislativi anti-feudali (rendendo così plausibile la tesi della concordia tra città e campagna); ma è altrettanto vero che molte delle rimostranze della massa di contadini braccianti e piccoli proprietari si addensavano intorno ai recenti provvedimenti “capitalistici”. La privatizzazione degli spazi comuni aveva causato l’impoverimento di molti contadini costretti a diventare braccianti; così come la coltivazione per il mercato e il conseguente abbassamento dei prezzi aveva arricchito i grandi e medi proprietari ma rovinato i piccoli. L’indigenza dilagante degli anni ’80 del XVIII è da attribuire NON SOLO al perdurare di abusi e ingiustizie di matrice “feudale” ma anche all’effetto dirompente che le nuove pratiche economiche (improntate all’efficienza produttivistica) hanno avuto sulle società di antico regime.[2]
Anna Maria Rao scrive: “la paura dei briganti, del complotto aristocratico o di nemici non meglio identificati fu all’origine delle sollevazioni che si diffusero per larga parte del paese.”[3] Quelle che per secoli furono jacquerie senza seguito, portarono – stavolta – alla abolizione di “tutti i privilegi feudali”, alla liberazione dei lavoratori della terra da decime, censi e tasse sulla persona.
Erano i frenetici giorni del 4 agosto, e poi del 7 e dell’11.
Il 26 fu presentata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, “l’alfabeto politico del nuovo mondo” secondo il deputato Rabaut Saint-Etienne. Adesso non restava che promulgare la costituzione.

2° errore di Luigi XVI – il re non firmò i decreti di agosto contro i privilegi di ordine. Le proteste sfociarono in una marcia di 7000 parigini fino a Versailles (scortata dalla Guardia Nazionale di La Fayette) per chiedere “il pane” e il trasferimento della corte in città. Ad ottobre corte reale e Assemblea nazionale erano a Parigi e non più nella isolata quiete della reggia.

La monarchia costituzionale (1789-1791)

Nuove leggi – L’attività legislativa dell’assemblea proseguiva a pieno ritmo.
• Incameramento beni della chiesa;
• Tasse in proporzione alla ricchezza;
• Emissione di assegnati (buoni del tesoro);
• Libertà di stampa, di opinione e di riunione;
• Nuovo ordinamento amministrativo: 83 dipartimenti divisi in distretti, cantoni e comuni, tutti con consiglio eletto dai cittadini;
• Nuovo ordinamento giudiziario: fine venalità delle cariche e completa distinzione tra il potere giudiziario e quello esecutivo e legislativo. Giudici eletti e processi con giuria popolare. Distinzione tra processi civili e criminali.
• Chiesa di Francia basata sul principio della nomina per elezione. Parroci e vescovi dovevano essere retribuiti dallo stato come ogni altro funzionario pubblico.

A questo punto il corso degli eventi sembra aver raggiunto un appiglio sicuro. Il deputato Duport proclamò, il 17 maggio 1791, che la rivoluzione era finita, e che bisognava porre fine agli eccessi, consolidare il governo, limitare libertà e uguaglianza. Anche per Bernave il senso profondo della rivoluzione era già raggiunto e stava nella disfatta dell’aristocrazia e nella vittoria della classe media.

Perché non riesce la stabilizzazione?

1) Pressioni esterne / 3° errore di Luigi XVI. Le corti dei principali stati europei considerarono la questione francese un affare internazionale e si mobilitarono per sostenere il re Luigi XVI. Il quale commise il terzo fatale errore: tentò una maldestra fuga nel giugno 1791 (fu riconosciuto e bloccato a Varennes), manifestando così il suo ambiguo ruolo di garante del nuovo stato. Pochi mesi dopo firmò la Costituzione solo perché costretto.
2) Problemi economici. Le cose non vanno meglio per la gente comune. C’era inflazione, disoccupazione. Inoltre la legge Le Chapelier che proibiva le associazioni operaie aumentò lo scontento nelle classi popolari (rappresentate politicamente dai “sanculotti”, sempre più influenti).
3) Divisione politica. La rivoluzione aveva innescato una passione politica molto forte: stampa, club, sezioni, petizioni e manifestazioni; feste, giornate insurrezionali, alberi della libertà…bandiere, inni. In questo clima molto intenso le posizioni politiche si radicalizzarono e si moltiplicarono. Si crearono – all’interno dell’assemblea – i “partiti” di destra (per fermare qui le riforme), di centro (cambiare ancora qualcosa) e di sinistra (cambiare la sostanza dei provvedimenti a cominciare dalla proclamazione della repubblica).
4) Controrivoluzionari. Il fronte degli sconfitti iniziò a riorganizzarsi intorno ai molti esponenti del clero che rifiutarono il nuovo status assegnatogli dallo stato. Specialmente nelle regioni meno urbanizzate l’opposizione al nuovo stato fu molto forte. Divenne celebre nel 1793 la rivolta della Vandea. Ma non fu la prima, né l’unica.

Emersero figure molto carismatiche, capaci cioè di convogliare e guidare i sentimenti collettivi attraverso la retorica, la propaganda, l’abilità nel convincere gli altri. Una di queste, Maximilien Robespierre, guidava l’ala sinistra dell’assemblea, detta dei giacobini, in virtù del luogo di ritrovo dei fondatori del partito.

La repubblica giacobina (1792-1794)

Per uscire dallo stallo e per prevenire una possibile azione militare dei paesi confinanti (Austria, Prussia) l’assemblea si decise a giocare la carta della guerra.
Nell’aprile 1792:
1) GUERRA contro Austria e Prussica
2) Giro di vite nella politica interna contro disfattisti e controrivoluzionari.

Ancora una volta l’assemblea si trovò ad un punto morto; incapace di decidere e di organizzare l’azione di governo. A prendere le redini del paese fu “di fatto” la COMUNE INSURREZIONALE, che aveva al suo interno rappresentanti degli stessi “partiti” dell’assemblea ma in proporzioni diverse. In pratica la guida passò in mano al gruppo giacobino che lo mantenne per quasi due anni, pur in forme e con interpreti diversi.
La guerra
Inizialmente l’esercito prussiano avanzava minaccioso verso Parigi. Il nuovo organo dirigente (la comune di Parigi) rispose al “panico da sconfitta” con una serie di leggi eccezionali che smantellarono il sistema di potere appena introdotto.
ü Tribunali speciali
ü Repressione ai controrivoluzionari (considerati contro la patria)
ü Abolizione della monarchia (21 settembre 1792); processo e condanna a Luigi XVI.
ü Dichiarata la repubblica francese. Costituzione nel giugno 1793.
ü Convenzione. Al posto dell’assemblea nazionale, una nuova assemblea costituente.
ü Grande reclutamento di soldati tra la popolazione. Propaganda nazionalista. (adottata al Marsigliese, dal canto di un battaglione dell’esercito).
ü Nuovo calendario


Risultati?
Vittoria militare a Valmy il 20 settembre 1792.
Moltiplicazione dei fronti di guerra: entrano anche Gran Bretagna, Olanda, Spagna, Savoia e altri principati tedeschi. Le cose si mettono male per la Francia.
In risposta la Comune opta per la leva obbligatoria, ingrossando le fila dell’esercito fino a circa 700.000 unità. Ormai siamo nel 1793, l’anno della Vandea e del grande terrore.
L’arruolamento coatto provocò una resistenza fortissima. Nelle campagne (dove l’influenza della chiesa era molto profonda) le famiglie erano determinate a non mandare i giovani a combattere per la rivoluzione: in alcune zone si scatenò una vera e propria guerra civile. Tra le numerose aree di guerriglia la Vandea (zona a nord e sud della Loira) è la più celebre.
MARZO 1793Le rivolte indussero il potere (sempre più stretto nelle mani di pochi) ad una nuova serie di misure repressive e coercitive:


ü tribunale rivoluzionario
ü comitato di salute pubblica
ü comitati di sorveglianza



N.B.
E’ la guerra che crea il meccanismo perverso per cui la paura della sconfitta legittima l’adozione di una serie di misure eccezionali anti-democratiche contro i nemici esterni ma anche interni. Inoltre la necessità di autoritarismo accentra il potere nelle mani di pochi. In breve troviamo un potere autoritario e pressoché illimitato (esercitato da uno o da pochissimi) che, in nome della sicurezza e della patria, muove contro i nemici esterni e contro gli oppositori interni con tutti i mezzi. Il passo verso un regime di terrore è breve, perché di fronte alle sconfitte militari la principale arma a disposizione dei governi è la mobilitazione generale , l’esasperazione dei contrasti, la realizzazione di un mondo dove si è a favore o contro; e chi è contro deve essere eliminato!


Nel corso del 1793 le vicende belliche andavano male per i francesi; le rivolte interne non si placavano. Erano le condizioni ideali per accelerare la spirale funesta della guerra totale: nell’ottobre 1793 fu emanato l’obbligo di arruolamento per tutti i giovani tra i 18 e i 25 anni; fu requisito il grano nelle campagne; fu portato al massimo grado il regime poliziesco di repressione controrivoluzionaria. I tribunali speciali lavoravano a pieno ritmo condannando alla ghigliottina migliaia di persone (con processi sommari, spesso senza prove) per ragioni politiche. I leader delle varie fazioni si eliminarono tra sé, infatti chi raggiungeva il potere faceva condannare a morte i suoi avversari politici. Finirono così ghigliottinati tutti i principali protagonisti del Terrore: Danton, Herbert, Desmoulins ecc.

Nel luglio 1794 la svolta: l’esercito dopo alcune vittorie importanti (tra cui quella di Napoleone Bonaparte a Tolone) ottiene una vittoria fondamentale a Fleurus che sancisce in pratica il successo militare della repubblica francese. Nello stesso periodo le rivolte interne si placarono fino a rimanere solo casi sporadici. A questo punto non c’erano più ragioni di misure di emergenza. Anche Robespierre, “l’incorruttibile” il grande timoniere della repubblica giacobina, fu scalzato dal resto del comitato e condannato a morte; per il calendario rivoluzionario era il 9 termidoro, per il resto del mondo il 27 luglio 1794.

La repubblica conservatrice (1794-1799)

Il potere tornò nelle mani dei moderati, che agirono attraverso il lavoro nella Convenzione (l’assemblea parlamentare).
La rivoluzione è finita?
Con l’uscita di scena di Maximilien Robespierre e la revoca delle misure di emergenza, l’epoca della rivoluzione sembrava destinata a concludersi. Ancora una volta ci fu chi dichiarò terminata la rivoluzione.
La Convenzione riprese la guida del paese e stilò una nuova costituzione (1795), molto meno radicale ma comunque piuttosto avanzata, che confermava la natura repubblicana dello stato; le libertà civili (opinione, stampa, riunione); introduceva l’istruzione obbligatoria; confermava l’autonomia della magistratura e il sistema dei Dipartimenti e dei Municipi guidati da Consigli rappresentativi.

Perché non va tutto a posto?
1) C’è la vendetta dei monarchici. Mentre la Convenzione e il nuovo organo esecutivo, il Direttorio, tentavano la pacificazione chiudendo i circoli giacobini, si scatenò il “terrore bianco”: a Parigi bande di giovani benestanti imperversavano alla caccia di giacobini e sanculotti da randellare; nel sud del paese la ritorsione era anche più violenta con arresti e omicidi politici.
2) Crisi economica. Le nuove manifestazioni di protesta di sanculotti e popolani sono represse dalle forze dell’ordine. (I giacobini accolsero spesso le richieste degli strati popolari.)
3) Le elezioni per la nuova assemblea furono vinte dai monarchici. In pratica il governo rimase nelle mani dei repubblicani grazie ad un escamotage (una quota di “diritto” per i rivoluzionari) ma il Direttorio (composto da 5 membri scelti dall’assemblea) si trovò stretto tra i monarchici a destra e i giacobini – sempre molto popolari nelle città – a sinistra.

SX
Giacobini
Nel 1796 Filippo Buonarroti e Gracco Babuf organizzano al “Congiura degli Uguali” per rilanciare l’ideale rivoluzionario. Novità importante tra le rivendicazioni l’abolizione della proprietà privata.
Il tentativo fallì.


DX
Monarchici
Nel 1797 vinsero le elezioni. Ma il Direttorio, le considerò nulle e fece arrestare i leader politici.


DIRETTORIO
(governo borghese)



L’esportazione della rivoluzione

In difficoltà crescenti il Direttorio

Ancora una volta ricorsero alla guerra per trovare una via d’uscita dalla crisi. L’idea era quella di creare un “cuscinetto” tra la Francia e i paese antirivoluzionari per eccellenza: Austria, Prussia, Savoia. Sebbene nelle intenzioni la campagna d’Italia doveva essere un semplice diversivo, le vittorie del giovane generale Napoleone Bonaparte trasformarono nella sostanza il senso dell’iniziativa militare e, in breve tempo, anche l’esito della rivoluzione.
Le conquiste territoriali furono sancite dalla nascita di repubbliche sorelle: il 15 maggio 1796 Napoleone entrava trionfalmente a Milano (grande ammirazione degli illuministi lombardi per gli uomini della rivoluzione) e iniziò la sua gestione autarchica della guerra.
Anziché utilizzare i successi contro l’Austria al tavolo dei negoziati, Napoleone varò autonomamente una innovativa politica estera che “creava” stati “satelliti” con leggi e istituzioni mutuate dalla repubblica francese.
La nascita delle repubbliche filo-francesi si seguì a ritmo incalzante: la prima fu la repubblica Cispadana[4], poi fu la volta della R. Cisalpina (1797) che inglobò i territori ex-pontifici con il Lombardo-Veneto. Successivamente nacquero la repubblica romana e la repubblica napoletana.
La discesa di Napoleone nella penisola alimentò entusiasmi patriottici – celebre a tal proposito l’opera di Ugo Foscolo – e diede avvio al movimento che andrà a confluire nel Risorgimento.

Ma cosa succede a Parigi?
Gli anni dei trionfi militari di Napoleone sono anni di difficoltà per il Direttorio sempre più in bilico tra la sinistra popolare e la destra reazionaria e monarchica. Approfittando dell’enorme prestigio del giovane generale, alcuni vecchi saggi della classe dirigente francese, cercano di screditare il Direttorio e proporre una soluzione transitoria che si appoggiasse esplicitamente sulla conduzione di Napoleone. Quando il generale rientrò dalla sfortunata campagna in Egitto (celebre la sconfitta navale contro l’ammiraglio Nelson della flotta britannica) erano mature le condizioni per un cambiamento politico radicale. Con il colpo di stato del novembre 1799 e la nascita del Triumvirato composto da Sieyès, Ducos e Napoleone Bonaparte la rivoluzione – come proclamò lo stesso Napoleone – era davvero finita.
[1] Il più celebre è il lavoro dell’abate Emmanuel-Joseph Sieyès Che cos’è il Terzo Stato? “che cos’è il terzo stato? Tutto! Che cos’ha rappresentato finora nell’ordinamento pubblico? Niente! Che cosa chiede? Di diventare qualcosa.
[2] Alcune regole non scritte – fissate nella consuetudine e nella tradizione – fornivano in realtà un bilanciamento alle ingiustizie delle società pre-industriali, consentendo a tutti gli appartenenti alla comunità (di villaggio o di quartiere) di sopravvivere in un qualche modo. Molti di questi veri e propri “paracaduti sociali” vennero meno con l’avvicinarsi del XIX secolo, aprendo pertanto una durissima crisi sociale.
[3] Rao Anna Maria, La rivoluzione francese, in Storia Moderna, Manuali Donzelli.
[4] La Repubblica Cispadana, poi integrata alla repubblica Cisalpina, merita un posto nella storia d’Italia per aver dato i natali alla bandiera. Riprendendo il vessillo francese fu variato il primo colore adottando il verde al posto del blu. Rimase immutata invece la figura (strisce larghe verticali) e la sequenza del bianco e rosso.

Rivoluzione Francese - 1

La rivoluzione francese


La rivoluzione francese riveste numerosi spunti di interesse per la storia contemporanea. Intanto introduce il concetto di rivoluzione nella storia moderna. Una “rivoluzione” che è ben diversa da quella trasformazione istituzionale conosciuta in Gran Bretagna, e ben diversa anche dalle vicende americane. Ecco quindi il primo quesito:

COS’E’ UNA RIVOLUZIONE?
Fino al XVII secolo il termine rivoluzione significava il moto circolare intorno ad un punto fisso (“la rivoluzione della terra intorno al sole”). Gli avvenimenti americani e francesi danno alla parola rivoluzione un significato di sconvolgimento dell’assetto politico e sociale allo scopo di crearne uno nuovo. Tra le metafore più fortunate c’è quella del “mito solare”: il sole sorge su una nuova era. La storia viene concepita come un movimento in avanti, un continuo succedersi di progressi in tutti i campi.

Bisogna essere chiari sul fatto che ci sono due momenti che caratterizzano i processi rivoluzionari:

state breaking (distruzione). Un’azione di massa dal basso distrugge lo stato

state making (costruzione). Lo stato viene ricostruito in tutti i suoi aspetti: leggi, governo, esercito, ordine pubblico

Se si distrugge la vecchia classe dirigente e al suo posto troviamo una nuova forma di stato allora possiamo parlare di rivoluzione.

N.B. Il golpe si differenzia dalla rivoluzione perché cambiano solo i dirigenti, mentre il sistema rimane lo stesso. Inoltre non ha l’appoggio di una parte consistente della popolazione.

Il secondo fondamentale quesito a cui deve rispondere chi studia la rivoluzione francese concerne il tipo di rivoluzione a cui ci troviamo di fronte. La storiografia marxista ha parlato di rivoluzione borghese, una tesi sottoscritta da tutti gli studiosi, almeno fino a qualche decennio fa. Occorre allora fare un passo indietro e chiederci

LA RIVOLUZIONE FRANCESE E’ UNA RIVOLUZIONE BORGHESE?

E’ Karl Marx che espone la teoria dello sviluppo lineare della storia sulla base della lotta di classe, che muta in conseguenza ai cambiamenti nella struttura economica

Società feudale (distrutta dalla borghesia)
società capitalistica (distrutta dal proletariato)
comunismo (fine della storia)

La rivoluzione secondo Marx è una trasformazione che abbraccia tutti i campi della vita pubblica: politica, sociale ed economica. Così la rivoluzione francese segnerebbe il primo passo di questo processo storico, diventando il modello classico di rivoluzione borghese.

Prima della rivoluzione francese:
I. stato aristocratico
II. aristocrazia classe dominante
III. modo di produzione feudale
IV. struttura del privilegio

Dopo la rivoluzione francese:
I. stato borghese
II. borghesia alla guida dello stato
III. modo di produzione capitalistico
IV. uguaglianza giuridica

ILLUMINISMO

L’illuminismo Lumières in francese Enlightenment in inglese

Che cos’è l’illuminismo?« L’uscita dell’uomo dal suo stato di minorità di cui egli stesso è responsabile. Minorità, ossia incapacità di servirsi del proprio intelletto senza sottostare alla direzione di altri; minorità di cui egli stesso è responsabile, poiché la causa di essa non risiede in un difetto dell’intelletto, ma nella mancanza di decisione e di coraggio di sapersene servire senza la direzione di altri. Sapere Aude! Abbi il coraggio di servirti del tuo intelletto. Ecco il significato dei Lumi». Immanuel Kant 1784

Periodizzazione: dagli anni ’30 del ‘700 (XVIII sec.). Le idee portanti saranno patrimonio comune della cultura occidentale, ma dal punto di vista storiografico si fa finire nel 1776 con il tramonto dell’esperienza politica definita “dispotismo illuminato”.

Cosa volevano gli illuministi?
Volevano cambiare gli aspetti negativi della società attraverso l’uso della RAGIONE. La parola stessa fa riferimento ai “lumi” utili per “fare luce” sull’oscurantismo imposto alle persone da un mondo dominato da ignoranza, tradizione, autoritarismo politico e religioso. Concettualmente l’illuminismo sancisce il principio dell’azione razionale rispetto alla rassegnazione ad un destino predefinito (fatalismo, superstizione, ubbidienza).
Siccome per cambiare occorre conoscere ecco che con il movimento illuminista nascono o si perfezionano una quantità infinita di studi:

- chimica (Lavoiser)
- antropologia
- sociologia
- elettrologia (Volta, Galvani)
- pedagogia
- economia (Smith)
………..
Chi erano gli illuministi?
Esponenti della corrente di pensiero che poi sarà identificato come illuminista sono esponenti di alta cultura appartenenti ai diversi ordini. Questo significa che c’erano illuministi tra i borghesi, tra i nobili e anche tra il clero - élite culturale. Si definì proprio in questo periodo la figura dell’intellettuale o, per dirla alla francese, del philosophe.

Dove si diffonde l’illuminismo?
L’illuminismo ha la sua patria in Francia ma si diffonde in tutta Europa e in Nord America. Le sue radici affondano nel rinascimento, nella rivoluzione scientifica e nel riformismo britannico.
Ma siccome si manifesta principalmente come opposizione ai regimi assolutistici del Settecento, conosce maggior successo proprio nei paesi più autoritari.

Perché l’illuminismo si diffuse così tanto?
Rispetto alle precedenti esperienze di rinnovamento del pensiero gli illuministi poterono avvalersi di nuovi strumenti di diffusione del sapere : oltre ai giornali e alle riviste erano di moda molti luoghi di ritrovo come i caffè, società patriottiche e di lettura, i club, i teatri, le accademie d’arte e, anche, le logge massoniche.

Personalità di rilievo

Voltaire Lettere filosofiche 1733
Le lettere filosofiche sono una specie di “manifesto” del movimento. Voltaire era un grandissimo propagandista che di lavoro scriveva articoli sui giornali e interveniva nei dibattiti pubblici (che all’epoca si tenevano nei salotti dei personaggi più importanti e più influenti). In questo pamphlet critica duramente il governo francese per l’arretratezza delle leggi e la corruzione degli amministratori. La Gran Bretagna era presa a modello positivo, con il Parlamento che poteva controllare le azioni del re, e con un ordinamento legislativo proteso a favorire il commercio, la concorrenza, l’abolizione dei privilegi feudali.
Voltaire, per primo, inventa la figura dell’intellettuale che attraverso il suo lavoro contrasta il potere; nei secoli precedenti la persona di cultura “serviva” il potere.[1] La novità è che adesso c’è un nuovo interlocutore: l’opinione pubblica. (vedi scheda nel testo)
Altre opere importanti: Trattato sulla tolleranza, Candido.


Montesquieu Lo spirito delle leggi 1748
Con una dissertazione molto tecnica espone le possibili forme di governo (che sono tre: la monarchia basata sull’onore, la repubblica basata sulla democrazia o l’oligarchia, e la tirannide basata sulla paura). Individuata la composizione del potere di autorità (indagine razionale) viene esposto il modo per evitare la tirannide: divide il potere esecutivo detenuto dal governo dal potere legislativo detenuto dall’assemblea degli eletti. Infine il potere giudiziario deve essere indipendente e autonomo rispetto agli altri due poteri.
N.B. Montesquieu non aveva simpatia per la forma repubblicana, il suo ideale era una monarchia costituzionale sul modello inglese.

Rousseau Contratto sociale 1762
A differenza degli altri illuministi Rousseau non auspicava il mantenimento dell’assetto politico monarchico con qualche riforma, ma sosteneva – sulla base di un ragionamento esposto in questo famosissimo saggio – la nascita di una repubblica fondata sul principio della volontà generale e della partecipazione del popolo alla vita politica. Un modello politico che influenzerà i rivoluzionari dei due secoli successivi.

Immanuel Kant Critica alla ragion pura 1781 (Germania)

Adam Smith La ricchezza delle nazioni 1776 (Scozia)
E’ la prima indagine sistematica del funzionamento della società capitalistica nell’età della manifattura. Propone il LIBERISMO come sistema economico per accrescere la ricchezza delle nazioni e degli individui. La teoria liberista si basa sul presupposto che la naturale inclinazione degli uomini alla ricerca egoistica del proprio interesse giovi tendenzialmente all'interesse dell'intera società. Da qui la necessità di “lasciare liberi” gli uomini di arricchirsi (sistema conosciuto con i termini “laissez-faire” o “free-trade”).

Diderot e D’Alambert L’enciclopedia 1751-1765
Opera monumentale simbolo del movimento (17 volumi + 11 di tavole), l’enciclopedia fu scritta da Diderot e d’Alambert coadiuvati da 160 collaboratori.
[1] Nel medioevo e ancor di più in epoca moderna il centro della cultura erano le “corti” di regnanti e signori locali. L’uomo di cultura per vivere doveva “accasarsi” presso una corte e quindi era alle dipendenze del potere.

RICERCA SUL SEICENTO

RICERCA SU SEICENTO E BAROCCO

Fasi in cui si articola la ricerca:

Fase 1 - scelta dell'argomento (ven. 26 gennaio)
Fase 2 - ricerca materiale (scad. Merc. 07 febbraio)
Fase 3. appunti delle parti interessanti tratte dai vari testi
Fase 4 – scrivere un resoconto
Fase 5 - Esposizione orale

Come si lavora su fonti diverse (enciclopedia, monografia, manuale, internet)


PERSONALITÀ

1) Perché (Bernini/Borromini/Brunelleschi/Leonardo da Vinci/ Galielo/Newton …) è importante? Ovvero cercare, in particolare nella monografia, quelle novità, quelle specificità che rendono il personaggio unico e fondamentale. NB evitare l’elenco indistinto di tutto quello che ha fatto, ma evidenziare l’aspetto essenziale. L’inizio del lavoro deve trattare di questo.
2) Cenni sulla vita. Questa parte – che non deve essere la prima, sennò sembra una enciclopedia – deve essere molto sintetica.
3) Un approfondimento a scelta. Un aspetto specifico, un aneddoto, un’opera interessante.

ARGOMENTO (es. Barocco, Rococò, Rinascimento, Rivoluzione scientifica)

1) Inquadrare le specificità dell’argomento. Si fa presentando subito 1 o 2 esempi particolarmente efficaci per capire di cosa si tratta. Poi si presenta in poche righe il periodo storico e il luogo dove si sviluppa. (prendere dalla monografia)
2) Sintesi dei protagonisti e delle caratteristiche. (prendere da enciclopedia e manuale)
3) (eventualmente) Approfondimento su un personaggio, un avvenimento o un’opera del periodo.

SHAKESPEARE

Presentazione dell’opera scelta (personaggi, trama)
Shakespeare e il teatro (informazioni sintetiche)
Quale parte viene letta integralmente?

Per tutti:
Inserire al termine i testi utilizzati (ovvero la bibliografia). Esempio:
Augias C., I segreti di Roma, 2005.
I documenti scaricati da internet: http://www.wikipedia.net/

Quello che conta è mettere in evidenza: a) di cosa o di chi si tratta? b) perché è importante?
Se non ci sono le risposte a queste domande vuol dire che il lavoro è stato fatto male.

N.B. La suddivisione in tre parti distinte può essere utile anche per fare prima quello che riesce meglio. In ogni caso il “montaggio” si può fare alla fine.


Se alcuni passaggi dei testi vi sembrano molto efficaci potete riportarli citando ad esempio:
“Alla fine del Cinquecento la capitale della chiesa cattolica era poco più di un villaggio attraversato dalle greggi e disseminato di maestose rovine.” Augias, I segreti di Roma, 2005, p.102.

DON CHISCIOTTE

DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA

di Miguel de Cervantes
genere : romanzo
data: 1605 / 1615
paese: Spagna

Miguel de Cervantes può vantare una vita più che avventurosa: combatté nella “invicibile armata” tutte le maggiori battaglie della sua epoca, tra cui la vittoria navale di Lepanto nel 1571. Qui rimase ferito al petto e alla mano (di cui perse l’uso). Nel 1575 fu rapito dai pirati turchi e venduto come schiavo ad Algeri. Nei cinque anni di prigionia tenta la fuga numerose volte, sempre con esisti fallimentari. Viene riscattato da un amico e, rientrato in Spagna, cerca di ricostruirsi una vita agiata con il matrimonio e alcuni lavori saltuari nel ministero delle Finanze come esattore delle imposte e rifornitore di viveri per l’esercito. Il fallimento dei suoi fornitori (in realtà dei malviventi) trascinò Cervantes in carcere a Siviglia. Siamo nel 1602 e qui, probabilmente, inizia a concepire un lavoro molto diverso da quelli scritti, con modesta fortuna, fino a quel momento.
Di cosa si tratta? Il racconto di un cavaliere “fuori tempo massimo”; un racconto molto lungo scritto seguendo l’istinto; ovvero improvvisando la storia senza aver pensato prima all’intera struttura.

Il Don Chisciotte
Il protagonista è un hidalgo spagnolo (signore di campagna) Alonso Quijano annoiato per la monotona vita di nobile decaduto e morbosamente appassionato di romanzi cavallereschi. Talmente appassionato che un giorno decide di cambiar vita: cambia nome in DON CHISCIOTTE DELLA MANCIA, indossa quello che trova tra ai cimeli di famiglia (spada, armatura, lancia), monta sul cavallo nominato ronzinante e parte come cavaliere errante alla ricerca di avventure. La sera si ferma in una locanda dove un oste burlone sta al gioco e lo “arma” cavaliere, consigliandogli di prendersi, come tutti i cavalieri, uno scudiero fidato.
Dopo alcune peripezie torna a casa e completa la figura del cavaliere: propone al contadino Sancio Panza di accompagnarlo in cambio di un governatorato e si “crea” una donna amata a cui dedicare le nobili imprese. Questa donna ideale (“la più bella del mondo”) sarà Dulcinea di Toboso, in realtà una contadina di un paese vicino immaginata principessa.
Convinto che il mondo avesse bisogno di lui, Don Chisciotte parte per la sua missione. Tutta la prima parte del romanzo si svolge sulla linea narrativa di Don Chisciotte che, incapace di vedere la realtà, si caccia in guai sempre più grandi e sempre più dolorosi e del fidato Sancio che cerca in tutti i modi di convincerlo a desistere riferendogli il più possibile cosa realmente si trova di fronte.
L’episodio dei mulini a vento scambiati per giganti o del gregge di pecore scambiato per esercito nemico sono solo due dei numerosissimi episodi narrati da Cervantes.
La prima parte si chiude con il rientro a casa di Chisciotte grazie ad un espediente di Sancio in accordo col prete e con il barbiere.
Qui è curato dalla governante, mentre i suoi “salvatori” gli bruciano i libri causa della follia.
Ma ormai è tardi.
Chisciotte convince Sancio e riparte in direzione di Toboso. Nuove disavventure attendono i due, ma con una novità. Un giovane amico di Don Chisciotte si finge cavaliere con la speranza di indurlo a rientrare a casa. Ci riuscirà, ed è il finale del libro, sconfiggendolo a duello e costringendolo a consegnarsi nelle mani del vincitore. Tornato a casa deluso e umiliato si ammala: è triste e poco prima di morire confesserà a Sancio di aver riacquistato il senno.
Per la sua sepoltura furono composti molti epitaffi tra cui quello di Sansone Carrasco, il giovane che l’aveva sconfitto in duello:

Giace qui l’hidalgo forte
Che i più forti superò
E che pure nella morte
La sua vita trionfò.
Fu del mondo, ad ogni tratto,
lo spavento e la paura;
fu per lui la gran ventura
morir savio e viver matto.
Interpretazione del Don Chisciotte

“…altro non è stato il mio intento che quello di far odiare dagli uomini le bugiarde e assurde storie dei libri di cavalleria….”
Miguel de Cervantes ( Don Chisciotte della Mancia, Einaudi, p.1185).

Una delle interpretazioni più convincenti del Don Chisciotte coglie una precisa volontà denigratoria di Cervantes contro il romanzo cavalleresco e, più in generale, contro il “veleno” del suo tempo. “Questo veleno – scrive il critico e traduttore Vittorio Bodini – è l’evasione dalla realtà, la diminuzione di valore accordata alla verità della vita, per comprarsi con quel falso risparmio la droga dell’evasione.” Poche righe dopo Bodini aggiunge: “forse nessuna età può capire meglio della nostra questo bisogno di vivere di avventure riflesse, tolte a prestito a un mondo di fantasmi che abbia il meno possibile di rapporti col proprio mondo.” (V.Bodini, Introduzione, in “Don Chisciotte, op.cit.).

Altri hanno individuato nell’anelito utopistico di Don Chisciotte, nella ostinata lotta del sogno contro la grigia realtà, il messaggio fondamentale del romanzo. Altri ancora hanno ipotizzato un intento sarcastico verso il genere cavalleresco e la cavalleria in generale.
Ma sono letture meno convincenti.