La Grande Guerra
La prima guerra mondiale è conosciuta anche con il termine di “Grande Guerra” perché così apparve alle popolazioni che vi si trovavano coinvolte. Era una guerra “Grande” non solo per estensione dei fronti e per numero degli stati coinvolti: mai prima c'erano stati tanti soldati in trincea, tante armi in dotazioni agli eserciti, tante industrie impegnate a sostenere lo sforzo bellico.
E inoltre il mondo veniva da cento anni di “quasi pace”.
Per gli anziani della prima parte del ‘900 “pace” significava “prima del 1914”. Dalla resa di Napoleone le guerre erano state poche, lontane e senza conseguenze. C'era stata la guerra di Crimea (1854-1856) [1] , la guerra civile americana (1861-1865) , le guerre di espansione della Prussia (1866 e 1871) e dell'Italia (1859-61 e 1866). A questi scontri si aggiunsero i conflitti coloniali e le battaglie tra paesi imperialisti: nelle città europee gli echi di queste guerre giungevano quasi come racconti d'avventura, circondati da un'aurea di leggenda ed esotismo. Tutto cambiò nel 1914.
[1] La guerra di Crimea vide contrapporsi la Russia, interessata all'apertura sugli stretti controllati dalla Turchia, contro Francia e Gran Bretagna (a cui si unì anche il Piemonte Sabaudo). La Russia ebbe la peggio.
I fatti
Il conflitto mondiale scoppiò in seguito all'ultimatum dell'Austria-Ungheria alla Serbia agitata da spinte indipendentistiche.
La contrapposizione vide da una parte gli imperi centrali Germania e Austria-Ungheria e dall'altra la triplice intesa Gran Bretagna, Francia e Russia . Gli imperi centrali ottennero l'aiuto dell'impero ottomano – in drammatica decadenza – e della Bulgaria (stati nell'area di influenza economica tedesca). La Triplice intesa riuscì a costruire nel tempo un ampio schieramento comprendente la Grecia, la Romania, l'Italia (dal 1915) e gli Stati Uniti (dal 1917).
Quale l'obiettivo della Germania?
La Germania pensava a una guerra lampo con lo sfondamento del fronte francese e la capitolazione della vecchia antagonista, una replica del 1871 insomma. Ma non andò così, per quanto nel 1914 le operazioni sembravano dare ragione allo stato maggiore tedesco.
Cosa successe?
Arrivati sulla Marna le posizioni si attestarono: i francesi, supportati da reparti belgi e inglesi, scavarono migliaia di trincee dalla Manica alla Svizzera formando il cosiddetto “fronte occidentale” che rimase quasi immutato per tre anni e mezzo.
I numeri della catastrofe
La tragedia del fronte occidentale si trova nei numeri dei combattenti: i francesi persero il 20% degli uomini in età militare; la Gran Bretagna perse mezzo milione di uomini, in gran parte giovani di Oxford e Cambridge; la Germania ebbe numericamente le perdite più alte, ma la quota dei giovanissimi era meno rilevante (più ampia la fascia di età della chiamata alle armi). Gli Usa ebbero 116.000 caduti, un terzo di quelli della II guerra mondiale, ottenuti però in un solo anno e mezzo di combattimenti (contro i 3 anni e mezzo del 1942-45) concentrati nel fronte francese. Le battaglie più tragicamente note sono quelle su Verdun nel 1916 che vide impegnati 2 milioni di uomini e causò 1 milione di morti; e la controffensiva inglese sulla Somme, che costò la vita a 420.000 soldati dell'Intesa; 60.000 il primo giorno di offensiva.
In confronto a Napoleone
Per capire come il novecento abbia introdotto la guerra totale, fatta oltre che dai soldati, dai lavoratori delle industrie e dipendente dalla quantità delle risorse e di materiali, basta un confronto con le guerre napoleoniche. Napoleone sconfisse la Prussia a Jena nel 1806 con non più di 1.500 salve di artiglieria. All'inizio della IGM la Francia aveva pianificato di produrre 12.000 granate al giorno. Alla fine del conflitto arrivò a produrne 200.000 al giorno. Le guerre mondiali fecero fare un salto di qualità anche nella produzione di massa e nell'organizzazione del lavoro.
L'Italia e il fronte orientale
Il fronte orientale più fluido. Le truppe degli imperi centrali occuparono con relativa facilità i Balcani e la Polonia. La Russia si ritrovò immediatamente a combattere una guerra di retroguardia mentre Romania e Serbia capitolarono in breve. L'entrata in scena dell'Italia e l'ipotesi di aprire un nuovo fronte a sud fallì completamente. Nel 1917 dopo la disfatta di Caporetto furono necessari supporti militari da contingenti stranieri per resistere alla controffensiva austriaca.
La fine della guerra
Lo stallo militare sul fronte occidentale fu superato nel 1918 quando la Germania firmò a Brest-Litovsk la resa della Russia andata in mano ai bolscevichi e gli Stati Uniti entrarono a fianco dell'Intesa. Lo sfondamento del fronte in direzione Parigi fu l'ultimo successo militare della Germania: la controffensiva di inglesi, francesi e americani nell'estate del 1918 fu rapida e vincente. La guerra finì 8 novembre 1918, lasciando sul campo dieci milioni di vittime .
Le caratteristiche
La Grande Guerra rappresenta un punto di rottura nello scorrere della civiltà occidentale (diversa è invece la percezione del 1914-1919 nelle altre civiltà: islamica, indiana, orientale) e rappresenta anche un modo nuovo di concepire il conflitto tra stati.
Si possono individuare 4 elementi indicativi di questo mutamento:
1 – Mobilitazione totale
2 – Tecnica e la tecnologia si dimostrano determinanti per la vittoria militare. Molto di più dell'abilità strategica o del coraggio dei combattenti
3 – Lo stato interviene pesantemente con tutto l'apparato industriale e con la possibilità di pianificare l'intera fase di produzione e distribuzione della ricchezza
4 – Controllo dell'opinione pubblica e il ruolo della propaganda diventano fattori decisivi per la conduzione della guerra.
Da questo sintetico quadro risulta evidente il legame tra la prima guerra mondiale e il successivo sviluppo di regimi totalitari che mantengono, in periodo di pace, molte delle condizioni adottate per rispondere all'emergenza della guerra. Si pensi principalmente alla militarizzazione della cultura, ovvero all'enfasi posta sui valori di patria, di obbedienza all'autorità, di mobilitazione di massa all'interno delle strutture nazionali (associazionismo sottratto ai partiti, alla chiesa, ai sindacati ecc.). Inoltre non si può dimenticare il decisivo apporto dei reduci, all'ascesa delle formazioni politiche di estrema destra, come il fascismo in Italia e il Nazionalsocialismo in Germania. Peraltro lo stesso Hitler era uno dei tanti reduci del fronte che non si sono integrati nell'Europa post-bellica.
Dal punto di vista della percezione della realtà, la guerra introduce nelle società europee l'idea del nemico totale e dell'adesione incondizionata a questa contrapposizione: un vero e proprio aut aut mentale che lo stato impone ai suoi cittadini: o con me o contro di me! Chi non collabora o è neutrale è visto come un nemico. La distruzione del dissenso emerge come capitolo importante della politica interna dei nuovi governi nel dopoguerra: un'eredità antidemocratica della guerra molto diffusa tra le due guerre (e anche in seguito…).
Dall'altro lato della medaglia c'è invece il sorgere di un vero e proprio sentimento pacifista di massa. La dimensione spaventosa del conflitto e la percezione della sua inutilità per le popolazioni, provocarono un vasto movimento di opinione favorevole al disarmo, all'antimilitarismo, alla pace come obiettivo politico prioritario. Poeti, artisti, intellettuali agirono da spina dorsale della nuova corrente di pensiero: una posizione soltanto marginalmente recepita dai governi, troppo poco per impostare relazioni internazionali sinceramente tese a stabilire un ordine pacifico, ma abbastanza per procrastinare sine die ogni ferma presa di posizione verso le minacce militari di Germania e Giappone. Questa però è un'altra storia.
Perché la guerra?
La famosa “scintilla” fu l'attentato di Sarajevo. Le alleanze militari spiegano tecnicamente la composizione degli schieramenti. Ma questo non è sufficiente per giustificare una tragedia continentale di tale portata. Quella che è stata descritta anche come “il suicidio dell'Europa” ha segnato il passaggio agli Stati Uniti d'America del ruolo leader dell'economia mondiale. Quindi, come è stato possibile?
Se una risposta univoca non esiste, possiamo tracciare una serie di motivazioni che, sovrapposte, offrono un quadro plausibile del perché gli statisti europei non sono riusciti a evitare una inutile carneficina.
Nessuno immaginava una guerra più lunga di qualche settimana, massimo qualche mese. I ricordi affondavano alle gloriose battaglie di Von Bismark, che sbaragliò l'esercito di Napoleone III in pochi giorni, oppure all'epopea napoleonica dove la guerra era composta da una serie di battaglie campali, gestite poi in sede diplomatica.
L'inferno delle trincee, sostenute da popoli interi, fu un fatto inedito che colse alla sprovvista tutti: soldati, generali, capi di stato. Ma, in ogni caso, le forze in campo avevano un equilibrio che non permetteva a una parte di soverchiare con decisione l'altro.
Perché non si fermarono una volta che i fronti raggiunsero lo stallo?
La mentalità che aveva guidato le scelte degli statisti fino ad allora non era stato quello della guerra fino alla morte. Cosa avrebbero fatto i vari Bismark o Telleyrand al posto dei governi coinvolti nella Prima guerra mondiale? Probabilmente avrebbero trovato una via di uscita diplomatica nel momento che le posizioni si erano attestate. Se andarono avanti tre anni a massacrarsi sulle trincee significa che era cambiata la posta in palio. La guerra non era più finalizzata a obiettivi limitati: la Germania voleva una posizione di predominio politico pari a quello britannico, il che avrebbe relegato a un rango inferiore la potenza inglese già in declino. Era un aut aut. La Francia doveva bilanciare l'espansione economica e demografica della Germania. Per tutti l'obiettivo era assurdo e autolesionistico e cacciò l'Europa in un tunnel senza uscita.
Quale consenso?
La fase storica era favorevole agli interventisti. Lo sviluppo delle società democratiche e di massa favorì la comunicazione da parte di giovani intellettuali e spregiudicati imprenditori, inclini all'azione, al gesto eroico, all'impresa storica. C'era inoltre la guerra interna contro l'ideologia socialista, a cui la guerra esterna sembrava essere un ottimo antidoto (ideologia nazionalista contro ideologia socialista). La massa di contadini e operai era sicuramente contraria alla guerra, e questo comportò un grande sforzo da parte di tutti gli stati per convincere le proprie truppe e il proprio popolo dell'importanza del sacrificio.
La propaganda riuscì? Solo in parte!
E' vero che in fin dei conti la guerra fu fatta, e gli episodi di ammutinamento e diserzione non furono mai determinanti. Però è anche vero che le rivolte e le diserzioni furono di un numero spaventoso: in alcune situazioni gli ufficiali francesi o italiani si trovarono costretti a fucilare decine di soldati come monito (in particolare è molto alto il numero dei soldati italiani uccisi per diserzione nella rotta di Caporetto per obbligare alla resistenza sul Piave); dopo la rivoluzione interi reparti russi abbandonarono il fronte, o si rifiutarono semplicemente di combattere. In generale la resistenza ad obbedire agli ordini si è avuta dopo i primi mesi (quando l'illusione della guerra breve fu del tutto dissipata) e in seguito alla rivoluzione russa, quando le parole di pace e giustizia raggiunsero con grande forza persuasiva tutti i fronti e tutti i paesi.
Non abbastanza in ogni caso, per ribaltare il destino della guerra.
La guerra degli italiani
Premessa : l'Italia entrò un anno dopo con i fronti già attestati, per una mossa autonoma del Re che stipulò a Londra un contratto che metteva nero su bianco il compenso per l'ingresso dell'Italia tra i paesi dell'Intesa. Quindi il re portò il paese in guerra per avere il Trentino, il Friuli, l'Istria e la Dalmazia. L'anno di neutralità vide una durissima conflittualità ideologica tra interventisti e non interventisti.
Nel 1911 la popolazione italiana contava 36 milioni di abitanti (2 dei quali però emigrati all'estero) in maggioranza ancora legati al mondo agricolo. In altre parole il 58% erano contadini, il 24% addetti dell'industria e artigianato e solo il 17% impiegati nel terziario.
Arruolati nell'esercito nel periodo 1915-18 furono 5.900.000 (su 7,7 milioni di famiglie); il reclutamento coinvolse cioè statisticamente i 4/5 delle famiglie anche se ci furono punte diverse a seconda delle zone. In Toscana ad esempio quasi un uomo su due fu impegnato nell'esercito: praticamente tutti i gruppi familiari avevano un soldato in guerra. Il fronte si componeva di circa 1 milioni di uomini all'inizio e circa 2 alla fine.
Chi era in prima linea? In generale erano contadini, giovani mandati a combattere per un'idea di patria che ignoravano e per delle ragioni geopolitiche assolutamente incomprensibili. Spesso contadino-soldato era legato ai valori della terra e del villaggio, non aveva istruzione, non parlava altra lingua che il proprio dialetto; in breve non aveva tensione morale, ma semplice ubbidiva agli ordini e alla chiamata dello Stato.
L'esperienza del fronte fu una esperienza devastante. Il sentimento più diffuso fu lo sgomento per una realtà inaspettata. Centinaia di poesie, diari e scritti ci danno testimonianza, più delle fredde cifre – comunque 600.000 morti, quando l'intero risorgimento ne costò 7.000 – della tragedia, dello spavento, della rassegnazione vissuta nelle gallerie di fango scavate per centinaia di chilometri lungo il confine con l'impero asburgico.
Il Carso
Il fronte più tragicamente noto è quello del Carso, di cui il fiume Isonzo rappresentò la linea naturale della carneficina. Si contarono in tre anni 12 “battaglie dell'Isonzo”, che significa come i morti non spostavano di un metro la situazione militare. L'altopiano che seppellì, tra i due eserciti, quasi un milione di giovani, è ondulato e brullo, caldissimo in estate e battuto in inverno da venti gelidi da nord est, solcato da caverne e ripari naturali. In questo ambiente le battaglie erano svolte con la strategia degli assalti: quando l'ufficiale dava il segnale al grido “Savoia”, i soldati semplici uscivano correndo dalla trincea, baionetta alla mano, per andare verso la trincea avversaria a qualche centinaio di metri di distanza. Raggiunta la quale si innescavano sanguinosi corpo a corpo con armi bianche.
In quei momenti concitati e spaventosi la possibilità di restare vivi era davvero molto bassa; non meno pericolosi erano i bombardamenti con i cannoni da trincea a trincea o gli attacchi con armi chimiche, ancora non vietate dalle convenzioni internazionali.
Oltre ai danni fisici e alla morte incombente, i militari della grande guerra vissero un particolarissimo e molto diffuso stato di perdita di coscienza e crisi di identità indotto dalla paura, dalla confusione e dagli stenti della vita militare.
Le perdite dell'Italia nella prima guerra mondiale: 650.000 morti; 947.000 feriti, mutilati e invalidi; 600.000 prigionieri e dispersi. Su 5.615.000 uomini mobilitati si ebbe un totale di 2.197.000 perdite, pari al 39 % degli uomini sotto alle armi.
mercoledì 5 marzo 2008
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